Elogio all’ascolto, grande risorsa per managers, professionisti…e per tutti noi

Oggi viviamo sempre più in un mondo in cui “l’ascolto” sembra passare in secondo piano. Chi di noi non si scontra almeno una volta al giorno con la spiacevole sensazione di non essere pienamente ascoltato? Lì per lì, proviamo un fastidioso senso di disagio, ma poi se andiamo più in profondità, e siamo onesti, ci rendiamo conto che magari, anche noi, in una conversazione precedente, abbiamo peccato di qualche imperdonabile distrazione verso la persona che stavamo “ascoltando”. Con tutte le nostre più buone intenzioni all’ascolto era inevitabile pensare alla conference importante da fare un quarto d’ora dopo; alla mail fondamentale giunta poco prima; allo studio di una sentenza assolutamente rilevante per il nostro ultimo caso. Ogni giorno, quante cose “assolutamente fondamentali” ci impediscono, anche con le nostre più buone intenzioni, di ascoltare pienamente i nostri interlocutori? Quante volte sottovalutiamo o ci perdiamo, senza volere, aspetti e dettagli di quanto qualcuno ci ha detto (o anche scritto) che poi si riveleranno fondamentali?

Troppo spesso, un po’ a tutti noi, capita di dimenticare la ricchezza che può giungere dall’essere ascoltatori attivi e presenti. Ricchezza? Sì, perché è solo grazie all’ascolto attento che possiamo giungere alla comprensione e, quindi alla conoscenza, che, come tale, è una grande risorsa sia per la nostra vita personale che professionale.

Potremmo quindi, anche, intitolare questo articolo: “Piccolo manifesto per la conservazione dell’ascolto, risorsa in estinzione”. Tutto questo partendo dalla considerazione che esistono vari livelli di ascolto e che l’ascolto a cui ci riferiamo non è tanto quello spontaneo e naturale che ha che fare con lo “stare a sentire una persona che sta parlando” (cosa che può accaderci anche contro la nostra volontà) ma è una capacità: un ascolto di livello superiore, orientato a comprendere quanto l’altra parte stia realmente cercando di comunicarci. Questo livello di ascolto, quando affinato, si spinge a cogliere il messaggio anche in quei dettagli e quelle sfumature che, a volte, vanno oltre le parole stesse e le intenzioni di chi stia comunicando con noi.

Tenteremo, con questo contributo, di identificare alcuni dei possibili motivi della “crisi dell’ascolto” e, in un secondo articolo, di prossima uscita, di fornirvi qualche utile strumento per continuare a preservare una preziosa risorsa per il nostro lavoro di professionisti e per la vita di un’organizzazione, piccola o grande che sia.

 

Siamo sempre più connessi

Questo ci porta a ritenere, con una discreta punta di egocentrismo, di essere grandi comunicatori.

Tutti siamo ormai concordi sul fatto che lo sviluppo tecnologico abbia reso possibile un’evoluzione della comunicazione. Ma da quale punto di vista?

Probabilmente sono pochi coloro che tra noi non se lo siano mai chiesti o non inizino a chiederselo. L’evoluzione ci hai portati a sentirci quasi sempre “on line” e, in un certo senso “on air”. Quello che fino a pochi anni fa era consentito solo ad una diretta TV oggi è permesso ad ognuno di noi: possiamo videochiamare, fare conferenze internazionali, siamo reperibili ovunque, condividiamo foto di posti in cui ci troviamo con centinaia di persone nello stesso momento; possiamo andare realmente in diretta su social networks per “farci sentire e, anche, vedere”. Tutto questo snellisce la comunicazione, anche nel lavoro; accorcia magicamente le distanze; alimenta la nostra voglia di comunicare, ma, al tempo stesso, nutre il nostro ego. Ed è proprio sull’ego, come sappiamo, che i maggiori social network mondiali fondano le loro strategie. Ormai tutti ne siamo consapevoli. Quando, per esempio, esprimiamo un pensiero su un social network, ci chiediamo mai, quanto gli altri siano realmente interessati a conoscere ciò che abbiamo in mente? E, soprattutto, anche nel caso in cui, dall’altra parte qualcuno sia anche ben disposto, siamo certi che veda o senta di noi ciò che vorremmo trasmettergli?

 

Una società che monologa

Non avete anche a voi, a volte, la sensazione che siamo un po’ tutti diventati grandi “monologatori” e “interpreti di noi stessi”?

Il mondo appare sempre più popolato di gente che per strada, in treno, in palestra, in ufficio, al supermarket si trova fisicamente in un luogo, ma è in “comunicazione” verbale o scritta, grazie alle tecnologie, con chi si trovi da un’altra parte. Un mondo di gente che anziché dibattere durante un pranzo o una cena preferisce farlo sui social network che, da meraviglioso strumento per ritrovare amici, hanno lentamente, preso il posto delle nostre piazze, della panchina al parco, del tavolo di un ristorante, dove, se vi guardate attorno, la maggior parte dei presenti ha un telefonino sul tavolo, si scatta selfie, sente bisogno di sharing, comunica con tutti, ma troppo spesso si dimentica di condividere con chi sia fisicamente di fronte.

Vi chiedete mai allora se vi sia anche qualcuno che desideri e ami ancora avere una conversazione normale con chi si trovi nel suo stesso spazio fisico? Una di quelle fatte di sguardi che s’incrociano, di vero scambio di opinioni, di gesti per descrivere le cose, voci che sottolineino emozioni o pensieri. Una conversazione in cui entrambe le parti si prendano il loro tempo per fare solo una cosa: condividere.Perché anche quando, per una strana alchimia, accada di ritrovarsi dentro una vera conversazione, di quelle ormai demodé…siamo spesso costretti a dovere, se non spegnere, silenziare il telefonino per evitare che il mondo esterno disturbi la nostra attenzione.

 

Il nostro lavoro immerso in un universo parlante

L’attività di noi avvocati, professionisti, manager, progettisti, creativi e chi lavori con noi …si regge sulla comunicazione. Così ogni giorno, ci capita di chiederci come stiamo comunicando e/o se abbiamo comunicato al meglio: con il cliente, con i collaboratori, con la controparte, con il giudice, ecc. L’universo in cui viviamo ci parla, e parla per noi, attraverso qualsiasi mezzo, grazie a bot e chatbot. Ma quanto, invece, ci ascolta veramente?

Nessuno di noi può permettersi di sottovalutare la fase dell’ascolto. Se per comunicazione – intendiamo un processo in cui si entri in relazione con qualcuno – è ovvio che il ricevente non può certo essere un attore passivo, che si limiti a sentire quanto l’emittente stia dicendo: questo livello di ascolto richiede, oltre a quello spontaneo, una certa dose di partecipazione e di coinvolgimento. E’ questo ascolto che è momento essenziale e fondante dell’atto di comunicare. Se per noi avvocati è fondamentale sapere ascoltare è altrettanto prezioso per il nostro lavoro incontrare interlocutori altrettanto in grado di farlo. Poiché siamo tutti concordi di quanto ciò valga per tutti noi, in ogni ruolo ed attività cosa possiamo fare per ascoltare al meglio? Lo vedremo tra poco.

 

L’uso eccessivo di meravigliose tecnologie e la mancanza di tempo

Questi due fenomeni sono tra gli artefici del degrado dell’ascolto.

In una giornata quante sono le conversazioni (in cui sia voi che la controparte siate fisicamente presenti) in cui non subentri qualche comunicazione esterna (sms, mail, call..) ad interferire con quanto vi state dicendo? Noi ce lo chiediamo spesso.

Siamo travolti dalla meta-comunicazione e dall’iper-comunicazione. Sappiamo ormai anche, citando Marshall McLuahn, che “il medium è il messaggio”. E così, sempre più spesso, nel nostro quotidiano, il messaggio/contenuto passa in secondo piano, così come, sempre più spesso, si trascura lo scopo della comunicazione vista come “entrare in relazione con l’altro”.

Condividere l’informazione, essere iper-informati sempre e produrre informazioni, sul lavoro, nella vita personale, in quella sociale è sì, in parte, comunicare, ma quanto entriamo veramente in contatto con gli altri in quelle che sono le nostre molteplici attività di comunicazione quotidiana? A volte la comunicazione mangia sé stessa.

Pensiamo a quante volte in ufficio si manda una mail a chi ci stia di fronte. Se da un lato è importante scrivere tutto, così da lasciare un documento, quante volte non sarebbe più utile ed efficace parlare? Di tutte queste mail, quante sono veramente indispensabili ai fini di una buona comunicazione e del lavoro di team? In molte aziende, soprattutto quelle più grandi, la mail interna risponde sempre di più all’esigenza di certificare piuttosto che alla funzione di reale scambio interattivo. Così, il personale, per mandare mail, si ritrova a spendere una grande quantità di tempo che, spesso, sarebbe meglio impiegato in una conversazione con il collega, in un vero scambio, o con lo svolgimento di altre attività. Questo non può che portare a delle inefficienze oltre che a un raffreddamento dello spirito di squadra. Ecco quindi un caso in cui si rischia di scambiarsi molteplici informazioni, senza, però, dar vita ad una comunicazione efficace.

In qualche modo anche la parola in sé, nella sua forma scritta, ha sempre più difficoltà ad emergere, a trovare uno spazio suo. Pensiamo a come scriviamo in chat e via mail: a “per” abbiamo sostituito “x”, a “weekend” “we” a “as soon as possible”, invece, “asap”, che somiglia all’acronimo di un servizio pubblico cittadino. Questo perché, anche quando si legge, si ha poco tempo.

Ogni comunicazione, sia in uscita che in entrata, viene riportata dentro il binario dettato dal tempo mancante. Abbiamo strumenti che fino a quindici anni fa erano protagonisti della fantascienza, ma cosa manca? Ci pensate mai? Spesso manca il tempo, sia da una parte che dall’altra.

E, così, ecco come all’ascolto viene a mancare la prima fonte di alimentazione: la disponibilità mentale.

 

Siamo ormai molto visivi e poco “uditivi

Cinema, tv, computer, videogames, internet, dispositivi mobili: siamo sempre più abituati a leggere e seguire immagini, alla loro percezione sempre più veloce, ma siamo sempre più disabituati al suono – se non nella forma di rumore urbano che ci sforziamo di filtrare o a cui ci siamo così abituati al punto da non sentire più -.

Ormai ascoltiamo tutto con gli occhi (bellissimo), ma troppo poco con le orecchie e con gli altri nostri sensi.

In più, la tecnologia ha regalato la possibilità di disporre di musica sempre più portatile, consentendoci di non dovere più essere a casa per ascoltare un CD o la radio. Se questo, da un lato, è meraviglioso, dall’altro ci ha disabituati all’ascolto attento della musica, come solo può avvenire sul nostro divano o a un concerto. E’ come se avessimo un po’ tutti sviluppato sempre di più la vista e narcotizzato gli altri sensi. Sensi che non solo ci permettono di comunicare meglio e farci meglio comprendere, ma soprattutto di meglio capire l’altro.

Nel suono c’è vita. Non deve per forza essere musica. Nella comunicazione, quindi, il suono è fondamentale. Gli antichi greci lo avevano capito bene, riuscendo a costruire teatri come quello di Epidauro, in cui per lo spettatore dell’ultima gradinata era possibile udire perfettamente l’attore che, a moltissimi metri di distanza, parlava con tono di voce normale.

La voce di una persona, il suo semplice suono, dice molto di lei/lui, così come il tono con cui ci parla ci racconta tanto di ciò che sta cercando di dirci.

In questa epoca così meravigliosamente visiva e futuristicamente tecnologica, il suono sembra trovare sempre meno spazio e con esso, l’udito, senso attraverso cui passa l’ascolto. La semplice fruizione di un audio libro può restituirci in un attimo la misura di quanto poco siamo abituati a “cogliere e vedere solo attraverso il suono”, insieme al piacere di renderci conto di quanto sia straordinario il senso dell’udito.

 

 

Concludendo, nella nostra società iper-veloce e informatizzata sono molte, come abbiamo visto, le cause per cui ci ritroviamo un po’ tutti sempre meno pronti e disponibili all’ascolto. E anche quando siamo convinti di ascoltare veramente siamo sopraffatti da disturbi e contingenze che ci impediscono, spesso, di cogliere aspetti che sarebbero fondamentali.

Tutto questo cosa comporta per tutti noi? Il rischio di una perdita di qualità del nostro modo di comunicare. Rischio che, nella vita, ma anche come professionisti, non possiamo permetterci se vogliamo avere buone relazioni con gli altri.

Siete d’accordo?

Vedremo prossimamente cosa possiamo fare per “prevenire” e, quindi, comunicare al meglio, in modo assertivo.